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Call for Papers Vesper, n. 14/2026

Vesper / Call, n.14/2026

Università Iuav di Venezia


La volontà di sapere | The Will to Knowledge

a cura di Sara Marini e Angela Mengoni


“Il libro è creatura fragile, soffre l’usura del tempo, teme i roditori, le intemperie, le mani inabili. Se per cento e cento anni ciascuno avesse potuto liberamente toccare i nostri codici, la maggior parte di essi non esisterebbe più. Il bibliotecario li difende dunque non solo dagli uomini ma anche dalla natura, e dedica la sua vita a questa guerra contro le forze dell’oblio, nemico della verità”. “Così nessuno, salvo due persone, entra all’ultimo piano dell’Edificio…” L’Abate sorrise: “Nessuno deve. Nessuno può. Nessuno, volendolo, vi riuscirebbe. La biblioteca si difende da sola, insondabile come la verità che ospita, ingannevole come la menzogna che custodisce. Labirinto spirituale, è anche labirinto terreno. Potreste entrare e potreste non uscire”. — Umberto Eco, Il nome della rosa

Il nostro cervello si adatta all’ambiente culturale non assorbendo ciecamente in ipotetici circuiti vergini tutto ciò che gli si presenta, ma riconvertendo ad altro uso le predisposizioni cerebrali già esistenti. Il nostro cervello non è una tabula rasa dove si accumulano costruzioni culturali; piuttosto, è un organo fortemente strutturato che usa cose vecchie per farne di nuove. — Stanislav Dehaene, I neuroni della lettura

“Forse qui per la prima volta s’impone quest’ingiunzione così particolare all’Occidente moderno. Non parlo dell’obbligo di confessare le infrazioni alle leggi del sesso, come l’esigeva la penitenza tradizionale; ma del compito, quasi infinito, di dire, di dire a se stessi e di dire ad un altro, quanto più spesso possibile, tutto ciò che può riferirsi al gioco dei piaceri, sensazioni e pensieri innumerevoli che, attraverso l’anima ed il corpo, hanno qualche affinità col sesso. […] Un imperativo è stato stabilito: non solo confessare gli atti contrari alla legge, ma cercare di trasformare il proprio desiderio, ogni proprio desiderio, in discorso”. Così cinquant’anni fa Michel Foucault in La volonté de savoir (1976) descriveva il modo in cui i meccanismi dell’esame di coscienza della pastorale del XVII secolo si sono progressivamente estesi a tutti gli ambiti della società segnando la soglia di una modernità biopolitica. La “volontà di sapere” non è qui la spinta di ricerca del soggetto, ma l’ingiunzione a far entrare nel campo del sapere-potere quei luoghi limite della vita che ne erano esclusi: la morte, la nascita, la sessualità. Siamo oltre la metà degli anni Settanta, è chiaro ormai che il potere non è più questione di limitazione e negazione, ma di ingiunzione e stimolazione della vita. L’agile libro di Foucault apre una riflessione filosofica fondamentale sulla biopolitica, ma lo fa attraverso un pensiero immanente e concreto che ha una sua archeologia: se il sapere cercava sul corpo della strega i segni del suo rapporto col male “fuori” di lei, dice Foucault, dopo cercherà di far sorgere dall’interno del corpo dell’indemoniata, nelle sue convulsioni, un male ormai interno, introiettato. Questo processo di aderenza del sapere ai corpi investe pienamente il nostro tempo e ci spinge a interrogarci sulle figure della “volontà di sapere” nel nuovo millennio: le questioni della sorveglianza, della mappatura costante e capillare della vita nella sua tenuta sociale e biologica (con l’implosione, di fatto, di questa soglia), della visibilità diffusa, della caduta dei limiti tra interno ed esterno, tra dentro e fuori dal lavoro, dalla veglia, dalla vita privata sono esplorate dalle forme artistiche e progettuali. Philippe Parreno con le sue Marquee (dal 2006) espone soglie illuminate che portano verso nessun interno, la mera soglia, il bagliore di un attraversamento, la condizione di possibilità di andare altrove. Ma sono le soglie del corpo moderno, investito dalla volontà di sapere, al centro di un intenso lavoro della cultura visuale: gli scorticati di Vesalio assistono alla scissione che attraversa il loro corpo, “qualcuno ha fatto loro la pelle, ma essi sono ancora vivi, […] sembra che vogliano dire qualche cosa” (J. Gil, Corpo, in Enciclopedia Einaudi, 1978) e le arti contemporanee esploreranno il sostrato biologico della carne, sia come oggetto di visualizzazione (l’ormai proverbiale viaggio che Mona Hatoum compie con una sonda all’interno del proprio corpo, Corps étranger, 1994) sia come attore di una presa di parola “altra” scritta col sangue e le viscere, discorso del “corpo anteriore” che viene prima del corpo come immagine (R. Barthes, Réquichot e il suo corpo, 1982).

“Volontà di sapere” ha però anche un’accezione meno connotata, di primo grado: si ritrova qui la sfera del desiderio di conoscenza e le sue sfide oggi costantemente evocate, prima tra tutte quella dell’orientamento in un labirinto ipertrofico di informazioni. Incontriamo così, pochi anni dopo quello foucaultiano, un altro testo sull’inesauribile spinta verso il sapere, le sue risorse infinite di seduzione, le sue trappole letali. Con Il nome della rosa (1980) Umberto Eco ordisce un giallo alla cui origine è il voler sapere, al centro un libro e intorno, narrativamente, il desiderio degli aspiranti iniziati contro la strenua difesa dei custodi della tradizione; per il lettore, invece, si apre un percorso comparabile attraverso la trama multilivello delle citazioni cifrate, in uno dei più grandi esempi di macchina testuale dialogica, come la definisce Bachtin.

Il romanzo di Eco ruota spazialmente attorno a una biblioteca e diventa, come la costruzione dell’effimera Strada Novissima voluta, sempre nel 1980, da Paolo Portoghesi dentro le Corderie dell’Arsenale di Venezia, baluardo della post-modernità. Da un lato una biblioteca che si impone nel territorio, fortezza e anche crocevia multiculturale interessato da continui arrivi e partenze, traduzioni e riscritture, a ricordare le radici culturalmente ibride dell’Europa, dall’altro una strada, ovvero lo spazio di transito e di intersezione di abitanti, esploratori e frequentatori della città. La distanza tra le due figure è quindi solo apparente: l’inespugnabile biblioteca e l’ariosa strada alludono alle forme della conoscenza. Francalanci nel libro Del ludico. Dopo il sorriso delle avanguardie (1982) precisa: “È lo stesso testo di Eco, tra l’altro, che è immaginato come citazione totale di un libro che riproduce fedelmente un manoscritto, non è che un gioco straordinario intorno alla allusione, poiché essa è la forma stessa del linguaggio, la natura vera della parola, cioè della Biblioteca, che illude di contenere il sapere, il quale è invece disperso in segni la cui relazione reciproca è incomprensibile”. 

La Strada Novissima è di cartapesta ed è l’occasione per Portoghesi per inneggiare alla fine del proibizionismo in architettura, la narrazione di Eco si fonda sul finto ritrovamento di un manoscritto e la trama procede inseguendo un volume “che non deve esistere” di Aristotele dedicato alla commedia e al riso. Sempre in un gioco di specchi che rende difficile mettere a fuoco la realtà, annebbiata dalla volontà di sapere, la biblioteca fuori appare monumentale e inespugnabile, dentro ospita una inestricabile foresta di scale di legno; il francescano Guglielmo da Baskerville è vanitoso perché sa di sapere, mentre l’eretico dolciniano Salvatore si vanta di essere stupido.

Il nome della rosa apre alla resurrezione, in chiave pop, della storia, in particolare del Medioevo, tempo che ha diversi nessi con quello attuale addizionato da nuovi sentieri virtuali, come precisa James Bridle in Nuova era oscura (2018). Il romanzo è scritto mentre è già nata l’ennesima rivoluzione della comunicazione, ovvero l’avvento della grande biblioteca digitale, che sembra decretare la morte del racconto su carta e l’inutilità della sua “cassaforte” architettonica. La biblioteca alla fine del romanzo brucia: quel che rimane è, come recita l’ultima frase del romanzo, “Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus”, solo un nome. Nella realtà resta una catena infinita e avventurosa di libri che insieme al successo del romanzo di Eco sconfessano il rogo della biblioteca a chiusura del racconto e il suo possibile proporsi come una premonizione.

“La volontà di sapere” fa emergere il segno dell’infinito a connotare l’estensione della conoscenza e la figura del labirinto a definirne la mappa e i possibili sentieri di attraversamento. La mostra Tipologie, ora in scena negli spazi di Fondazione Prada a Milano, ribadisce che l’esplorazione del labirinto del sapere con la vertigine delle sue mille possibili liste è uno dei grandi luoghi di elaborazione per l’arte contemporanea. Gli estesi atlanti fotografici e visivi, da quelli di August Sander, a Gerhard Richter a Bernd e Hilla Becher, presentano in forme mediali non digitali le medesime domande poste dai big data: come orientarsi nella proliferazione visiva senza le regole pre-determinate dell’archivio, ma attraverso l’emergenza contingente di variazioni, modulazioni, relazioni la cui intelligenza è tutta visiva? E cosa ci dicono queste forme artistiche rispetto alla volontà di sapere che affidiamo all’Intelligenza Artificiale, nutrita dalle enormi masse di dati di uno “spazio latente”, come lo definisce Antonio Somaini, sulla cui relazione con il “fuori” e con le forme di contingenza ci si interroga sempre più?

Come una fortezza che dentro espone i propri infiniti tesori si presenta la Vasconcelos a Città del Messico, la più grande biblioteca dell’America Latina realizzata da Alberto Kalach nel 2006. Masse di libri sospese accolgono il visitatore a enunciare il potere della conoscenza, la sua potenza scenica, il suo essere incommensurabile. Posti a una certa distanza gli scaffali di libri appaiono non dissimili da quelli che contengono database. 

Le biblioteche possono essere baluardi di stato come raccontano con evidenza la città di Parigi e gli ingenti investimenti fatti per sancire la ricorrente presenza urbana di monumenti del sapere. Il ruolo delle biblioteche resta ancora oggi, in un tempo in cui le diseguaglianze economiche tornano a essere più evidenti, quello di “spazio pubblico” nel quale avere accesso alla conoscenza, “piazze” nelle quali si definiscono temporanee o persistenti comunità. Il progetto delle architetture che costudiscono libri e documenti è, inseguendo sia il reale che il fantastico, sia nella nuova fondazione che nella revisione dell’esistente un esercizio sul rapporto tra corpi in moto nello spazio, oggetti e discorsi scritti che muovono le menti, una sfida quindi che cerca un equilibrio tra il calcolo del peso della carta e il sollevarsi dei pensieri.

Le nuove biblioteche che si stanno costruendo nel mondo proseguono in buona parte l’esempio della Seattle Central Library realizzata da Oma nel 2004: sono oggetti chiaramente riconoscibili, dal perimetro e dalla forma certi, progettati su una ottimizzazione della gestione e degli usi degli spazi interni. Il modello si sta progressivamente evolvendo dando sempre più spazio, oltre alla conservazione e allo studio, a luoghi per il tempo libero, dove incontrarsi e svolgere diverse attività. Nel 2010 Sou Fujimoto conclude a Tokyo la Musashino Art University impostata su una pianta a forma di labirinto e nella quale gli scaffali dei libri coincidono con i muri, nella Tianjin Binhai Library realizzata in Cina nel 2017 da MVRDV scale e muri ospitano i libri per fare spazio a una grande agorà. Dentro le nuove grandi biblioteche realizzate nelle metropoli del pianeta sono raccolti brani di città, salvifiche isole climatiche, ma resta anche un’altra via, che spesso convive con la precedente, disegnata da realtà insediate nell’esistente e nuove open library di piccola dimensione ma numerose e specializzate, come un arcipelago. Nei vecchi e spesso vuoti centri storici ma anche nelle periferie disperse abitare le biblioteche equivale a vivere gli spazi della città: scoprire luoghi, attraversare i secoli, uscire e percorrere strade, piazze e piazzali, trovando chiostri, giardini, zone abbandonate, punti d’ombra. 

Si va in biblioteca non per trovare il libro che si cerca ma per incontrare un testo di cui non si sapeva nulla, questa è l’avventura che propone la biblioteca fisica, in particolare la sua sezione a scaffali aperti. Di nuovo e soprattutto le biblioteche sono luoghi dell’immaginario che producono altre immagini, propongono nuove vie, proprio perché reali presentano nessi ancora più evidenti tra le cose tangibili e le immagini del mondo. I libri, come personaggi di una storia, attendono di essere animati, consultati, dimenticati per essere poi riscoperti, di essere oggetto di discussione tra conoscenti o sconosciuti. Nel 1997 Rachel Whiteread allestisce al Moma di New York Untitled (Paperbacks), l’opera è il calco in negativo di librerie cariche di libri, una biblioteca di gesso con la memoria di volumi assenti, titoli cancellati e colori in buona parte annullati: solo alcuni frammenti riescono a riaffiorare dalla materia omogenea. Con le sue Delocazioni, le prime sono degli anni Settanta, Claudio Parmiggiani realizza opere di “fumo su muro” in cui il fumo e la cenere di copertoni bruciati tracciano il profilo delle librerie colme di libri addossate al muro e poi rimosse, evocazione di un rogo distruttivo, ma anche materia residuale capace di conservare la memoria di una presenza e di creare una visione evocativa. Tra l’inquietante e il poetico, il monumentale e il fragile, l’effimero e l’eterno, la volontà di sapere ci sfida e ci irride.

 

Invio degli abstract entro il 5 settembre 2025 all'indirizzo pard.iride@iuav.it
Notifica di accettazione entro il 15 settembre 2025
Invio papers entro il 10 novembre 2025

Pubblicazione del numero: maggio 2026

 

Tutte le info al sito: https://www.iuav.it/it/vesperrivista/call

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