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ABROAD – Elogio dell’Università italiana

Gianfranco Marrone

Sarà perché sono meridionale e lavoro in un’università del Sud che sgarrupata è dire poco. Sarà perché faccio il semiologo, e cerco di considerare fatti e opinioni da un punto di vista inverso. Sarà perché, da meridionale, so quanto quaggiù per fare qualsiasi cosa occorra uno sforzo tre volte maggiore che in altre parti d’Europa. Sarà perché, da semiologo, mi piace smontare e rimontare le retoriche dei media, diffidandone per principio e saggiandone gli esiti. Sarà perché, da meridionale, lotto contro il provincialismo di chi pensa che altrove, per definizione, tutto sia meglio che qua. Sarà per tutto ciò o per altro ancora, ma a me questa storia dei brillanti cervelli italiani in fuga all’estero, lontano dai terribili baroni universitari che non li avrebbero mai fatti lavorare in loco, non mi convince fino in fondo.

Il cervello è oggi tanto di moda: sembra sia responsabile di tutto quello che diciamo e facciamo. Così, in attesa di una futura neuroricerca sulle aree cerebrali che s’insanguinano di studi esteri, avanziamo una riflessione semiseria su cotanto problema sociale. Le innumerevoli discussioni sulla recente riforma universitaria, peraltro firmata da chi ha asset ben oltre la materia grigia, ci faranno da retrofondale pertinente.

Una cosa che colpisce, leggendo le numerose interviste ai ricercatori all’estero, è che tutti vorrebbero ritornare in Italia, vivendo la permanenza nelle prestigiose università che li hanno accolti e finanziati come un esilio forzato. Nostalgia, si dirà, della terra e della mamma, del sole e dei mandolini. Troppo poco, ammettiamolo, a giustificare l’idea di voler abbandonare centri di ricerca e laboratori serissimi per ripiombare nelle macerie morali e materiali dei nostri atenei. Un’altra spiegazione può esserci. Chi ha avuto occasione di frequentare queste persone, lontano dai microfoni dei giornalisti e dalle enfasi che ne derivano, sa che arriva sempre il momento della confessione, dello sfogo, della rivelazione intima. Ne viene fuori il rovescio della medaglia: paura di sbagliare e perdere il posto, insoddisfazione per la qualità del lavoro, senso di impotenza verso i superiori, insofferenza verso le ottusità del sistema, dipendenza ossessiva dalle valutazioni degli studenti, sottomissione alle mode culturali del momento. Insomma: un’esistenza dedita non alla scienza ma alla sua caricatura, non al sapere ma alla sua burocratizzazione, non al pensiero ma ai suoi stereotipi. Altro che ricerca libera, pensiero critico, ampliamenti di conoscenza, esplorazioni imparziali nei meandri dell’universo lontano o della materia infinitesimale. Se costoro sono sfigati non è perché sono lontani dalla famiglia e dagli amici della scuola ma perché quelle università (generalizzo, certo) portano avanti un’idea di indagine scientifica soffocante e sventurata, fatta di protocolli rigidissimi e bieco politically correct, dove la dedizione assoluta nei confronti degli studenti è funzione delle rette da essi versate alle casse dell’ateneo; e dove il sacro rispetto degli andazzi intellettuali è funzione dei finanziatori che, alla fine, vogliono che il loro nome rimbalzi sui media e, soprattutto, che alle loro ingenti uscite corrispondano in bilancio maggiori entrate. La ricerca scientifica universitaria, all’estero, deve sempre e comunque essere utile, strumentale al raggiungimento di fini altri, foss’anche destinata alla reinterpretazione postcoloniale di rarissimi manoscritti assirobabilonesi o alla valutazione estetica della forma delle eliche del DNA.

Insomma, se andate a studiare all’estero, vi danno il posto che meritate, vi fanno usare biblioteche alessandrine e laboratori megagalattici, vi riempiono di denaro per borse di studio e convegni in giro per il mondo. Vi chiedono in cambio di spegnere la mente e le sue circonvoluzioni, il cervello e le sue sinapsi. Se studiate storia medievale, non pensate che possano esserci affinità con l’oggi. Se vi occupate di ingegneria chimica, non vi colga l’idea di riflettere sui meccanismi industriali che finanziano le vostre ricerche. Se lavorate su Giordano Bruno, non tracimate su Telesio e Campanella, che sono proprietà del collega esperto della stanza accanto. E non pensate di incrociare sguardi e metodologie, temi e problemi, perché ogni cosa sta al suo posto e non se ne parli più. A meno che non passi il guru di turno per dare il via libera a un concetto sedicente originale, ed ecco tutti a seguirlo, cuorcontenti, infliggendolo da quel momento in poi a ogni minima occasione di sfoggio intellettuale.

La ricerca sedicente seria, quella che si fa nelle .edu, è dannatamente specialistica, peraltro succube dei modelli un po’ beceri delle scienze dette dure, soprattutto per quel che riguarda la sua valutazione: riviste e collane di serie A, B o C; sistema di referaggio il cui anonimato serve solo ad animare dicerie e pettegolezzi; conto certosino del numero delle pubblicazioni senza alcuna attenzione circa i loro contenuti. Dove l’Inglese, per definizione, è il solo e unico veicolo linguistico della Scienza e della Verità. Per non parlare della didattica, dove lo studente è coccolato che nemmeno in una pubblicità dei pannolini, i libri di testo sono ipersemplificazioni del sapere medio e i compitini scritti mal nascondono la possibilità di surrettizi controlli dell’alto. Il che significa, niente sperimentazione reale ma automatica applicazione di formulari, nessuno sforzo di pensiero ma ripetizione di idee assodate, nessuna possibilità di travalicare domini di ricerca e steccati disciplinari. Tutto si gioca, bene, ma in casa. Nessun nomadismo teorico, nessuna traduzione concettuale fra saperi, nessun salto creativo fra modelli interpretativi.

A me, lasciatemelo dire, tutto questo non piace. E posso facilmente immaginare che non piaccia a coloro i quali alla ricerca credono, accontentandosi di lunghe ed estenuanti carriere miranti a ottenere i magri stipendi universitari italiani pur di conservare autonomia di pensiero, libertà di analisi, eccentricità di sintesi. E poi, all’estero non m’avrebbero mai permesso di occuparmi senza soluzione di continuità di letteratura e di media, di cinema e di realtà urbane, di telegiornali e di telefonini, di fiction televisive e di brand, così come di tutti quegli altri argomenti su cui ho lavorato grazie a quest’italica università smandrappata, parentopolara, anarchica, insensata, priva di regole e di futuro.

E allora, facciamo così. Permettiamo il ritorno dei nostri studiosi dall’estero. Ma a un patto: che ritrovino distacco, leggerezza e autoironia; che parlino di scienza sempre fra virgolette; che non si portino dietro le finte etiche della ricerca che hanno trovato là; che non ci guardino con ostentato compatimento; e, soprattutto, che tacciano su referaggi e riviste di settore, conteggi di citazioni e numero di pagine massimo per i libri di testo, attestati protocolli di ricerca e modi esatti d’esprimersi in pubblico. La signora Gelmini potrebbe ascoltarli. E farebbe un’altra riforma del cavolo.

(PS. E una piccola cortesia personale: convegni, per favore, non conferenze; biblioteche, non librerie; posti, non posizioni.)


Articolo apparso originariamente su Alfabeta n. 8